Il branding è la nuova politica

Due appunti sull’approccio al branding di Gummy Industries

Alessandro Mininno
8 min readMay 15, 2020

A un certo punto il nostro amico Giorgio Soffiato ha chiesto a Fabrizio Martire e a me se poteva intervistarci, per un bel progetto editoriale che si chiama “La solitudine del direttore marketing”.

Scaricatevi il magazine completo qui sopra. Ne riporto un estratto, perché ci capita raramente di parlare di branding. In grassetto le domande di Giorgio.

Cosa significa oggi essere un brand?

La risposta è sempre la stessa, da duemila anni: il valore di un brand è trasmettere fiducia. Se pensi a uno scaffale con centinaia di prodotti e immagini di essere il consumatore che deve scegliere, il valore del brand è evidente: non puoi provare tutti i prodotti e ti trovi in una situazione di asimmetria informativa. Il rischio di prendere una fregatura è elevato. In quel momento, un prodotto di una marca “famosa” ti sembrerà migliore, mentre sarai diffidente verso una marca che non hai mai sentito. Poi, tra i brand che conosci tenderai a comprare quello che rispecchia di più le tue esigenze in quel momento.

Le persone non comprano i prodotti per la loro funzione, li comprano perché un brand o un oggetto contribuiscono a definire il loro ruolo nel mondo. Scegliamo di essere una donna Missoni, un ragazzo con le Converse, una mamma che ha un Bimby.

A forza di riporre la nostra fiducia nei brand (sulla qualità del prodotto, ma anche sulla visione del mondo che il brand costruisce) siamo finiti a considerare i brand e le aziende come dei modelli di riferimento. I brand hanno affiancato o sostituito gli idoli del nostro passato: gli scrittori, i cantanti. in alcuni casi anche le divinità o addirittura… i politici. Sto esagerando? Il 62% dei consumatori vuole comprare da brand che abbiano un impegno etico, il 66% preferisce i prodotti di aziende che siano trasparenti nel modo in cui trattano i dipendenti e la filiera (fonte: Accenture).

Etica e trasparenza sono valori fortemente politici: vent’anni fa, nessuno avrebbe chiesto a un’azienda di esprimere questi valori. Anche perché l’istituto dell’azienda — parliamoci chiaro — nasce per fare soldi, non per aiutare il pianeta o combattere per i diritti civili.

Eppure, avere a cuore i diritti e le responsabilità sociali oggi diventa cruciale per fare business (e quindi per fatturare di più). Di conseguenza, la sfida dei brand è capire quali valori etici o politici possono assorbire e rappresentare.

Quindi i brand dovrebbero prendere esempio dalla politica (che non è mai un buon esempio).

La tagline di Patagonia non è “premiata ditta dal 1973 produciamo giacche con qualità ed eccellenza”, ma è “We are in business to save our home planet”: uno statement fortemente politico. Che non si ferma sulla carta: negli anni Patagonia ha iniziato a destinare l’1% del proprio fatturato per combattere il climate change (investendo quasi 90 milioni di dollari), a incentivare il mercato dell’usato e il riutilizzo dei capi. Questo posizionamento culmina nel vero e proprio attivismo quando l’azienda decide di chiudere tutti gli store per permettere ai dipendenti di partecipare alle manifestazioni di Fridays for Future o si offre di pagare le spese legali a chi, tra i suoi dipendenti, venisse arrestato durante una protesta. Non è difficile capire perché questo brand diventa memorabile.

Patagonia non è l’unico brand a schierarsi a favore di battaglie sociali o civili. Netflix in Italia ha apertamente supportato il gay pride, sia online che per strada, durante la manifestazione, negli ultimi tre anni.

Nike sembra andare nella stessa direzione quando usa come testimonial Colin Kaepernick, un giocatore di football americano famoso per aver iniziato una protesta contro Trump, a favore dei diritti degli afroamericani. Quando Nike ha lanciato la campagna con Kaepernick i conservatori hanno iniziato a bruciare le proprie Nike per manifestare il loro dissenso.

https://www.youtube.com/watch?v=_MZNZk1ksUI

Può sembrare che le aziende scelgano le battaglie da combattere con il cuore, ma forse si tratta più di un calcolo: quanto guadagna Nike a promuovere i diritti degli afroamericani, e quanto ci perde? Ci viene in aiuto un’analisi di Advertising Week, che analizza la risposta dei diversi consumatori rispetto a una serie di temi sociali.

Complessivamente, il pubblico reagisce in modo positivo a tutti i temi sociali, con pochissime eccezioni. Quello che emerge dal rapporto è che i liberali sono molto più sensibili, in positivo e in negativo, mentre i conservatori hanno reazioni molto moderate — in pratica non reagiscono.

L’effetto netto è che, per la maggior parte dei brand, è conveniente associarsi a dei temi liberal.

Forse quando Nike dice “Credi in qualcosa, anche se significa che dovrai sacrificare tutto” quello che intende è “Credo che farò qualche miliardo in più”.

fonte

Gummy ha seguito nel tempo clienti super importanti, alcuni con una storia di lungo periodo (penso a SUN68) altri con iniziative di frontiera (penso al podcast sul mondo del Chianti per Lamole di Lamole), esiste un fil rouge che cercate sempre di mantenere nei vostri progetti? Qualcosa che vi guida?

La direzione creativa di Gummy è una diretta emanazione delle persone: quindi la differenza la fanno le persone che scegliamo e quelle che teniamo vicine a noi.

Nel corso del tempo abbiamo confrontato il nostro modo di lavorare con tanti altri, amici e colleghi, e siamo riusciti a trovare due o tre punti di differenza.

Il primo punto è sicuramente il perfezionismo, la capacità di passare otto ore in riunione a farsi seghe mentali per un singolo dettaglio, magari coinvolgendo una dozzina di persone: ecco, tutto questo noi non ce l’abbiamo mai avuto. Siamo gente di internet, pensiamo che un prototipo pubblicato in due ore, che genera numeri e dati, sia sempre meglio che una cattedrale bellissima costruita in due anni di lavoro, ma che magari arriva sul mercato troppo tardi.

Il secondo tratto è la capacità di essere raffinati e di nicchia: sicuramente ce l’abbiamo, ma abbiamo deciso di non metterla in atto quasi mai. Non vogliamo essere estremi né auto-referenziali: a un certo punto abbiamo capito che essere in grado di parlare alla massa, come fa un buon reality show o un film blockbuster, è una sfida bellissima.

Il nostro valore maggiore è che siamo veramente assortiti male: siamo tutti diversi. E quindi abbiamo la tendenza a mettere insieme cose diverse, anche molto distanti. Nel processo di idea generation chiameremmo questa strategia “simbiotica”: mettere insieme elementi molto diversi per ottenere qualcosa di totalmente nuovo. È questo che facciamo da dieci anni, mischiando elementi pop e cultura “alta”, cose serie e demenziali. Ci piace il clash culturale, perché abbiamo un sacco di interessi e curiosità diverse e non vediamo l’ora di fare un bel polpettone.

Un polpettone a forma di riccio (non rilevante, ma mi piaceva)

Di recente avete fatto incontrare TikToker / Instagrammer ed ex ministri, come è andata? Come scegliete i canali di comunicazione per i vostri progetti?

Se pensi che un ex ministro non abbia voglia di parlare a fianco di una giovane YouTuber, ti sbagli: entrambi ne hanno voglia ed entrambi ci guadagnano. La gente viene sempre alle cose che organizziamo perché siamo diretti e onesti: non c’è fuffa, non ci sono secondi fini occulti, c’è solo gente forte che parla e porta il proprio punto di vista. E questo è sempre un valore.

Di conseguenza, se hai dei contenuti interessanti, la scelta del “canale di comunicazione” è poco importante. le cose si comunicano da sole 🙂

Il fatto stesso che siate “ospiti di un contenuto di un competitor” potrebbe far storcere il naso ai puristi della scienza della concorrenza. Cosa significa oggi fare impresa non prendendosi troppo sul serio e credendo nelle persone, ma puntando comunque al profitto?

Questa idea che la concorrenza debba per forza essere spietata è un’idea del passato.

Se uno capisce bene il mercato, Gummy e Marketing Arena fanno due cose leggermente diverse, in un mercato che è in espansione da dieci anni (o più). Farsi la guerra è una perdita di tempo: siamo complementari, se andiamo a mangiare insieme ci vengono delle idee nuove, possiamo lavorare insieme e fatturiamo di più.

Questo vale per Marketing Arena ma vale anche per tutti gli altri player di mercato. Poi sia chiaro, se ci troviamo a dover competere per lo stesso cliente, ci giocheremo la partita. Ma appunto la vediamo come una partita di un lungo campionato: qualche volta vinci, qualche volta perdi, ma tanto le squadre sono sempre le stesse e anche i clienti, grosso modo, saranno sempre gli stessi. Probabilmente essere onesti, gentili e rispettosi con tutti (clienti e colleghi), per quanto possibile, è una buona strategia per sopravvivere a lungo.

E poi noi ci ricordiamo sempre che il fine ultimo di Gummy non è il fatturato o la marginalità: il fine è andare in giro per il mondo e conoscere nuove persone, mentre il lavoro di agenzia è solo una piattaforma. Per questo, avremo sempre voglia di collaborare con tutti.

Com’è essere ai posti di comando in Gummy di questi tempi? Che feeling percepite tra i vostri clienti?

Ti raccontiamo una storia. Una volta, un vecchio pubblicitario ci ha detto “negli anni Ottanta era bellissimo, andavo a pisciare, mi veniva un’idea e la vendevo a un milione di euro”. Ecco, questa cosa a noi non è mai successa: non abbiamo mai pisciato un milione. Ci siamo dovuti sudare ogni granellino, in un contesto di incertezza completa: ogni tre anni circa la composizione del nostro fatturato è cambiata totalmente (una volta facevamo soldi con formazione e consulenza, poi coi social, poi con l’art direction, poi chissà).

Siamo arrivati in ritardo alla festa dell’advertising anni Ottanta

Perché ti racconto questo? Perché noi siamo nati e cresciuti in condizioni di incertezza e siamo sempre pronti a cambiare tutto. Lo siamo sempre stati e non ci preoccupa.

Quindi sì, siamo estremamente preoccupati, come tutti, ma siamo pronti a gestirla. Penso che i nostri clienti abbiano lo stesso problema: l’incertezza di sapere cosa succederà nei prossimi mesi. Quindi iniziano a non decidere, a rinviare, a contenere i budget e questo è solo l’inizio.

Nei prossimi dodici mesi per molti sarà un disastro (e forse addirittura il 10% delle aziende falliranno). Ma non sarà così per tutti, qualcuno riuscirà a cambiare per sempre il proprio modello di business e il proprio modo di lavorare. Noi speriamo di essere tra questi.

--

--