I social sono la nuova piazza? Ecco cosa può imparare la politica da Facebook

Alessandro Mininno
8 min readJul 24, 2019

Durante la Milano Social Week del 2019, paola furlanetto mi ha chiesto di tenere un talk sui KPI ai tempi dei social. Qui potete leggere gli appunti di preparazione per quell’intervento :) Potete trovare tutti anche gli altri interventi in questo eBook.

La diffusione di Internet ha segnato un punto di svolta nel mondo del marketing e della comunicazione: c’è un prima e un dopo. Dopo internet, tutto è cambiato.

Immaginate di fare un salto indietro nel tempo, nel 1995, diciamo. Siete il marketing manager di una grande azienda. Il vostro lavoro si riduce a sviluppare una grande campagna di comunicazione all’anno, che andrà sulle maggiori reti televisive. Che, per inciso, sono cinque o sei, non di più. Forse farete un catalogo, una brochure, un volantino. Al massimo, una volta ogni lustro, dovrete rimettere mano all’immagine coordinata. In fondo, potete fare a meno di sapere cosa pensa di voi il cliente finale: è qualcosa che non vi riguarda.

Nel linguaggio di marketing diremmo che presidiate i media propri, owned, sui quali avete il pieno controllo (il vostro sito, l’immagine coordinata, il catalogo) e alcuni media comprati, paid, sui quali investite. Su quei mezzi avete meno controllo, ma sicuramente vi fanno raggiungere più persone.

Ecco, le persone: i clienti, gli utenti, i prospect non entrano in questa equazione se non come numeri, spettatori, punti percentuali di reach.

Ora, immaginate di essere sempre lo stesso, longevo, marketing manager e di sopravvivere fino al 2019: lo scenario è rimasto simile ma, accanto a media owned e paid, internet ha aggiunto, in modo irreversibile, i media earned, quelli guadagnati. Sono i tweet sul vostro brand, le recensioni, le fotografie su Instagram, i commenti dei blogger, i riferimenti ai vostri prodotti su Amazon e su Facebook. Sono le persone a scriverli, quindi sono spesso sgrammaticati, ignoranti, diretti. A volte persino falsi. Ma raggiungono un sacco di persone, che voi non riuscite a raggiungere direttamente.

Perché sono così importanti?

La risposta la fornisce Nielsen, nell’ultima ricerca sulla fiducia dei consumatori nei confronti della comunicazione. Il 68% dei consumatori si fida delle opinioni di perfetti sconosciuti, trovate online. Per confronto, solo il 53% si fida delle informazioni che trova sulle riviste.

Questo dato è importante perché, prima di internet, ovviamente era lo 0%: è sintomo di un cambiamento totale nel comportamento delle persone.

Nel 2001 circa le persone hanno smesso di fidarsi della pubblicità, per una serie di motivi.

Sarebbe facile dare la colpa ai pubblicitari, quindi facciamolo: è colpa dei pubblicitari, che hanno riempito il mondo di messaggi commerciali irrilevanti, talvolta falsi, onnipresenti e unidirezionali. Le persone hanno reagito in due modi: ignorando quei messaggi (attenzione selettiva, significa smettere di “vedere” attivamente le pubblicità) e rivolgendosi a fonti di informazione alternativa — i commenti su internet.

Intuitivamente, il problema è evidente: se dobbiamo comprare una macchina fotografica non ci fideremo del sito del produttore, né della pubblicità sulle riviste, perché li consideriamo di parte, “biased”. Invece, tenderemo a fidarci dei commenti sul gruppo Facebook “Fotografia amatoriale che passione”, perché penseremo che i commenti siano onesti e genuini.

Earned media quindi, media “guadagnati”: per il marketing manager del 2019 sono più importante degli altri due media e, per definizione, non li possiamo nemmeno comprare. Al massimo li possiamo influenzare.

Da questo semplice passaggio è nato un cambiamento radicale del modo di fare marketing, di comunicare i brand e di misurare i risultati.

A proposito, i brand. Una volta avevano in casa tutte le armi per costruire la percezione del marchio. Oggi, queste armi sono nelle mani dei consumatori o, peggio, di piattaforme di terze parti: il nostro brand non è quello che noi diciamo, ma quello che dicono di noi, su Facebook, su Google e così via. E se dicono qualcosa che non va, non avremo modo di cancellarlo.

Facebook è uno degli attori principali di questa storia ed è cambiato moltissimo nel corso del tempo. Abbiamo iniziato a usarlo quasi quindici anni fa ed è stato il primo social network di massa: funzionava bene ed era gratis, ci permetteva di far conversare le aziende con i consumatori in modo rapido ed efficiente. nel 2012, su 100 fan, 75 vedevano i nostri contenuti, in modo gratuito e spontaneo.

Oggi non è più così: il numero di persone che vedono i nostri aggiornamenti in modo gratuito, la cosiddetta reach organica, è l’1,2%. Approssimando, potremmo dire che è zero.

Facebook è diventato, a tutti gli effetti, una piattaforma di advertising e il suo utilizzo non può più prescindere da un investimento pubblicitario destinato a potenziare la diffusione dei contenuti.

Se vogliamo comunicare qualcosa, senza avere budget, che sia qualcosa di aziendale o di politico, in senso lato, forse Facebook non è più il posto migliore per farlo (o l’unico posto per farlo).

Se però abbiamo un budget da investire, l’investimento può rivelarsi terribilmente efficiente: per esempio nel corso di Expo 2015, il video di lancio, supportato da un buon budget media, ha raggiunto in un giorno 15 milioni di persone. Avere gli stessi risultati con una campagna offline avrebbe richiesto un investimento di circa venti volte più ampio.

Fonte: https://www.slideshare.net/expo2015milano_report

D’altra parte, Zuckerberg dice che lo scopo di Facebook è quello di far comunicare le persone, di essere prima di tutto una piattaforma per le community. È sua questa affermazione del 2017: “Facebook’s purpose is now “to give people the power to build community, to bring the world closer together.”

Sempre nel caso di Expo 2015, i contenuti più interessanti, su Facebook, non erano certamente quelli (pur ottimi) prodotti dal team di marketing, nè quelli oggetto di promozione pubblicitaria. Le interazioni e i contenuti migliori, quelli più accurati, più realistici e più tempestivi erano sicuramente quelli del gruppo “Expo 2015 consigli per gli utenti”, un gruppo di 35.000 fan della manifestazione. Il gruppo è nato spontaneamente e si è auto-organizzato per dare assistenza e dare risposte ai visitatori. Per inciso, risposte che nemmeno l’azienda avrebbe potuto dare. Qual è il padiglione che ha il miglior ristorante? Dove trovare acqua gratis? A che festa andare stasera? Qual è il parcheggio più comodo per un disabile? Alcune di queste domande non possono avere una risposta istituzionale, quindi non venivano evase sui canali ufficiali della manifestazione. Nel gruppo degli utenti, invece, questioni come queste venivano sempre risolte nel giro di dieci minuti.

Si tratta di un output desiderabile per chi organizza manifestazioni pubbliche come Expo 2015 (tra l’altro, la prima esposizione universale che ha preso vita in un momento storico in cui c’erano i social).

Come favorire le community? Come agevolarle? Come incentivare e rinforzare i comportamenti positivi? Queste domande sono cruciali per capire come comunicare temi politici e come creare consenso tra i cittadini.

Expo 2015 è stato l’esempio di una città temporanea, in miniatura, che aveva ogni giorno 12.000 residenti (i lavoratori) e circa 150.000 visitatori.

Gli stessi fenomeni di community che si sono creati durante Expo si creano in molte città.

Curiosamente, si tratta di un fenomeno tutto italiano: quello delle “social street”, i gruppi Facebook di quartiere, in cui la gente che vive nella stessa zona si trova, si parla, interagisce. Per chi è nuovo della città o per chi, per qualunque motivo, non è integrato nel tessuto sociale, sono una manna dal cielo: consentono di interagire in modo istantaneo e “light” con altre persone e, soprattutto, permettono di risolvere una serie di micro-problemi che richiedono una rete relazionale. Trovare il miglior idraulico, per esempio. Oppure scegliere il miglior ristorante di sushi. O capire come iscriversi al coro.

Gli economisti direbbero che la community rende trasparente un mercato che altrimenti sarebbe opaco, e lo fa tramite le interazioni sociali.

In modo ulteriormente interessante, queste interazioni non avvengono nelle “Pagine” Facebook, nè nella “bacheca”: avvengono nei “Gruppi”, lo spazio che Facebook riserva appunto alle community. Si tratta di un luogo digitale degno di nota, perché non è interessato dai problemi di scarsissima visibilità delle pagine. Anzi, funziona al contrario: se un tuo conoscente pubblica qualcosa, ricevi una notifica.

Se per gli utenti questi gruppi sono utili, lo potrebbero essere anche per la politica e per le amministrazioni pubbliche: infatti, dalle discussioni emergono i problemi più comuni del quartiere (e spesso ne emergono, in nuce, anche le soluzioni). Le social street sono una valvola di sfogo e allo stesso tempo costituiscono un manometro delle necessità cittadine, di cui esprimono in modo trasversale i bisogni, gli umori, le inclinazioni.

Potrebbero diventare il punto di partenza concreto di una politica più orizzontale e partecipata. Basterebbe chiedersi perché i cittadini passino tempo e dedichino energie all’attività in una community online.

È esattamente quello che ha fatto Fondazione Feltrinelli con il Rapporto sulle Social Street, che ha contato in Italia più di 400 social street, concentrate prevalentemente al nord. L’indagine ha approfondito i motivi della partecipazione, dando la possibilità di attribuire un peso numerico alle motivazioni che possiamo intuire.

Se “Condividere idee, opinioni e pensieri” è il primo motivo di partecipazione (14,4% dei partecipanti), è subito seguito da “Prendermi cura del mio quartiere” con 13,6% e a pari merito “Cercare aiuto o offrire aiuto”, sempre con il 13,6%. Ne emerge una necessità e una volontà di interazione molto interessante, soprattutto nelle grandi città, in cui il tessuto sociale è in rapida mutazione.

A Milano i gruppi sono molto numerosi, al punto che Palazzo Marino li ha inseriti nel novero dei “gruppi informali” da coinvolgere a livello di policy making.

Il presidio di queste comunità oggi è molto rilevante, per un motivo molto semplice: hanno la forza e la possibilità di cambiare, realmente, i comportamenti delle persone. La pressione sociale di una community, infatti, è un motivatore fortissimo.

Lo scenario che si sta prefigurando è quello di un nuovo tessuto di relazioni sociali a prova del nuovo millennio, in cui la socializzazione non è più relegata a comunità esclusive e denotate da un luogo fisico (il sagrato della chiesa) ma è collegata a infinite comunità liquide, inclusive, intersecate e soprattutto blended: online e offline.

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