Graffiti Writing. Origini, significati, tecniche e protagonisti in Italia
02 — Le radici del movimento
Dieci anni fa usciva “Graffiti Writing. Origini, significati, tecniche e protagonisti in Italia”, il libro mio e di Sara Allevi sul writing in Italia. Il libro è esaurito. Ho deciso di pubblicarlo, un pezzo alla volta, su Medium. Il testo che leggerete non è l’ultima versione, quella che venne stampata da Mondadori. È una versione leggermente precedente: è probabile che sia diversa, imprecisa e con qualche errore.
New York
Philadelphia, dicono alcuni, è il luogo natale del graffiti writing: da lì venivano Cornbread e i suoi amici, i primi ragazzi che iniziarono a scrivere ossessivamente il proprio nome su ogni superficie. È stata la grande mela però, senza ombra di dubbio, a dare la propulsione decisiva al fenomeno. A New York il writing è esploso: quando Keith Haring (spesso erroneamente associato alla cultura aerosol, di cui è sempre stato un outsider) arrivò a NY nel 1978 ogni carrozza della metropolitana era firmata o dipinta e la città aveva già intrapreso due lotte, inefficaci, contro un fenomeno che era già dilagante e fuori controllo. Gli elementi dello stile si erano ormai formati, e le firme si erano arricchite di sfondi, bolle, effetti tridimensionali, frecce: il writing era già diventato quello che oggi chiameremmo una scena, come la scena hacker, con i suoi leader, regole e punti di ritrovo (le writer’s bench, panchine dove i primi writer si trovavano per chiacchierare, disegnare, scambiarsi firme e bozzetti).
Era la fine degli anni ’60, New York era il centro di rapidi cambiamenti sociali e forti stimoli culturali: Julio, un ragazzo della 204th strada, cominciò a scrivere il proprio nome (“Julio 204”) per le strade e sulla metropolitana. Già nel 1968 era possibile rintracciare la sua firma in tutta la città: scrisse intensamente il suo nome per due anni negli angoli più reconditi, anche al di fuori del proprio quartiere; di lui, si persero le tracce quando, dopo aver fatto il taxista per altri due anni, finì in un ospedale psichiatrico.
Il writing suscitò un intenso interesse mediatico solamente nel luglio del 1971: Taki 183, un diciassettenne greco (il suo nome era Demetrios), partendo da Washington Heights (Manhattan) aveva riempito di tag tutta New York City e un reporter del New York Times, cercando di comprendere il significato delle sue firme, lo trovò e pubblicò l’intervista “Taki 183 Spawns Pen Pals”, rendendolo una celebrità tra i suoi coetanei e aprendo la strada a molti imitatori, spesso raggruppati in gruppi (cliques o crew).
Molto presto centinaia di ragazzi sentirono infatti il bisogno di scrivere il loro nome ovunque, imitando Taki 183, Julio 204 e gli altri come loro (Frank 207, Chew 127), utilizzando pennarelli indelebili (Magic Marker) e, successivamente, bombolette spray. Lo scrivere il proprio nome sui muri o sulla metropolitana era una pratica diffusa da tempo, seppure in scala molto ridotta: i membri delle gang giovanili firmavano per delimitare il territorio, e gli altri ragazzi spesso scrivevano dediche o insulti.
L’attitudine di Taki 183 o di Julio 204, però, comportava un radicale cambiamento di prospettiva, e stabiliva un obiettivo fisso e comune a tutti i writer, ovvero la fama: chi scriveva il suo nome più volte, nei luoghi più inaccessibili o più pericolosi diventava quasi un “eroe popolare” tra i suoi coetanei. Chiamavano questo tipo di attività “getting up”, venire fuori, evidenziarsi, mettersi in mostra rispetto agli altri ragazzi e agli altri “scrittori”. Già nel 1971 la città di New York spendeva circa 300.000 dollari l’anno per pulire i luoghi pubblici dalle scritte — ancora prima che i graffiti assumessero la forma attuale.
Ognuno sceglieva un nomignolo, un soprannome che potesse distinguerlo dagli altri, spesso corredato da un numero, come il numero della strada di provenienza, oppure il numero di una serie (Bam, Bam 4, Bam 5, Lee163!D, Lee II)
All’inizio degli anni Settanta, la pratica di scrivere il proprio nome sulla metropolitana era ormai dilagata: tra i tanti nomi, possiamo ricordare Phil T. Greek, Bronson 1, Tree 127, Thor 191, Bubba 161, Hitler II, Tan 144, Coco 144, El Cid, Lee 163d!, Phase 2, Stay High 149 e Kool Herc, ma ce ne sarebbero moltissimi altri. Diventa subito essenziale il Nome, come affermazione d’identità: Cay 161 sosteneva che “il nome è il credo dei graffiti”.
Potremmo collocare in questo momento (era il 1972) la nascita vera e propria del graffiti writing: centinaia di ragazzi erano ormai ossessionati dalla ricerca della fama, e “colpivano” con tenacia qualunque superficie avessero a disposizione.
La metropolitana di New York
Fin dall’inizio, i writer sono sempre stati molto affezionati ai treni: la metropolitana di New York permetteva alle firme di muoversi per tutta la città, come un gigantesco sistema di comunicazione che collegava i writer di quartieri lontani. L’alta visibilità delle firme sui vagoni, la vasta audience potenziale (4 milioni di passeggeri al giorno) e il suo ruolo di collegamento-comunicazione tra i quartieri della città spinse i writer ad eleggere la metropolitana a supporto preferito per il bombing.
Alcuni writer sostengono che il movimento del treno conferisca ai graffiti una componente stilistica in più, un effetto di movimento che sarebbe difficilmente ottenibile su un muro. Anche i colori risaltano meglio sulla lamiera di un treno, piuttosto che su di un muro.
La metropolitana di New York, posseduta da una società di nome MTA, serve tutta la città con 466 fermate: sono presenti sia treni locali che treni espressi (linee 4, 5, 6). Nel 1990 almeno la metà dei treni era vecchia di 20 anni, e 500 treni avevano addirittura 30 anni. I writer chiamavano i treni più antichi “flats” (costruiti negli anni 50), mentre quelli di età intermedia erano chiamati “coalminers” e quelli nuovi, rossi, “rocket trains”.
Le linee preferite dai writer erano la 2 e la 5 (number 5 Lexington Avenue Express), perché servivano una vasta area della città, diffondendo così il nome dei writer su un territorio più ampio.
Tra i molti rischi, che i ragazzi affrontavano di buon grado pur di riuscire a diffondere il proprio nome sulla subway, c’erano quello di venire arrestati, di inciampare sulla terza rotaia (“the live rail”: 600 volt) o di venire investiti da un treno.
Inizialmente i treni venivano dipinti durante le fermate nelle stazioni: il tempo limitava l’opera dei writer, costretti a fare solo delle semplici tag in fretta e furia. Ben presto qualcuno scoprì che, percorrendo le banchine utilizzate dagli operai, si potevano raggiungere dei punti della linea ferroviaria in cui i treni erano depositati, di giorno o di notte (“lay-ups” o “yard”, “depositi” in italiano): qui era possibile colpire più treni in una volta, con più tempo a disposizione. Questo favorì di sicuro la gara a chi faceva le firme più grosse e più belle.
Man mano che i treni si riempivano di firme, diventava necessario differenziarsi per rendere le proprie più evidenti, più grandi, più leggibili. I ragazzi iniziarono ad introdurre variazioni nelle loro firme, ed a sviluppare veri e propri logo riconoscibili all’istante. “Stay High 149” aggiungeva alla sua firma un personaggio stilizzato, mentre “Sweet Duke 161” disegnava un coniglietto.
Il rispetto del nome è una (forse l’unica) norma fondamentale tra i writer: scrivere sopra il nome di un altro può portare a temibili conseguenze. Lo stesso vale per l’originalità: copiare il nome di un altro significa rubarne l’identità, imitare il suo marchio di fabbrica; infrazioni come questa incorrono sempre in sanzioni sociali di vario tipo, che variano dal “crossing over” (gli altri scarabocchiano il tuo nome, o ci dipingono sopra) fino a punizioni fisiche.
Oltre allo stile, i writer iniziarono a studiare le dimensioni ed il colore: scoprirono che potevano coprire grandi superfici utilizzando le bombolette spray. Qualcuno provò a sostituire i tappini originali delle bombolette con i “cap” della schiuma da barba, o dell’appretto, e scoprì di poter ottenere un tratto molto più grosso.
I primi Settanta
Alcuni writer iniziarono ad aggiungere il contorno alle loro firme più grandi e ad aumentare lo spessore delle lettere. Super Kool 223, per primo, fece una grossa firma con il contorno su un vagone, introducendo ciò che sarebbe stato chiamato il “masterpiece”.
“Tutti parlavano di “quello che aveva fatto Super Kool”, ma di fatto dovevi vederlo per capire cosa fosse. Una volta che i writer si resero conto che ci volevano una o due bombole per farlo, persero un po’ d’entusiasmo. Potevi fare più o meno 50 firme con una bombola, dunque perché fare quest’altra cosa? Ma forse era in un certo modo inevitabile, o era la sfida a fare qualcosa di nuovo. Prese piede.” (Phase II)
Il passo successivo per Super Kool fu il primo “top to bottom”: pensò di dipingere anche sui finestrini, per tutta l’altezza del vagone, da cima a fondo. Nessuno ci aveva ancora pensato. Queste due innovazioni aprirono la strada ad un approccio diverso, al passaggio dalle semplici firme ai veri e propri pezzi. Si dice che molti writer, spaventati dalla nuova direzione che stava prendendo il movimento, avessero abbandonato la scena.
Altri invece accettarono la sfida e cominciarono ad elaborare sempre di più le loro firme, aggiungendo elementi nuovi quali outline, stelle, tagli, softie (lettere gommose) fusioni, piedistalli, loops, frecce (Phase II), sfumature, nuvole, fumetti (Flint 707), gocce sottili, lettere dei fumetti, lettere crepate (Worm/Riff 170), effetti tridimensionali (Pistol).
Utilizzando una definizione di Phase II potremmo considerare questi elementi “fondamenta dello stile”, cioè caratteristiche che entrarono a far parte del linguaggio visivo di moltissimi writer, e che sono utilizzate tuttora. Un esempio è la nuvola di sfondo, inventata da Phase II nei primi ’70 ed utilizzata ancora oggi da molti writer.
Con il diffondersi degli stili nelle lettere, si accentuò la competizione: i writer facevano a gara per chi aveva le lettere con uno stile più originale, con le migliori colorazioni. Ognuno cercava di “bruciare” gli altri, di ottenere gli effetti migliori ed una tecnica perfetta.
Nel 1973, all’incirca, nacque il wildstyle: le lettere softie cominciarono ad allungarsi, a contorcersi, separarsi ed ornarsi di frecce, a scapito della leggibilità del pezzo. Gli elementi inventati da un writer venivano ripresi e modificati dagli altri, che li usavano nei propri pezzi portando lo stile ad un livello superiore.
L’ampio spazio concesso dai media al fenomeno (in questo periodo, 1973, numerosi articoli apparvero sul New York Magazine e su altre riviste) spinse i writer a dipingere ancora di più ed ancora meglio. L’apparire su una rivista procurava ai writer proprio ciò che essi cercavano, ovvero una fama immediata e ad ampio raggio. Nello stesso momento, l’Ufficio del Bilancio di New York sosteneva che il “64% dei treni, il 46% degli autobus, il 59% delle case” avessero subito un danneggiamento da grave a estremo.
La fine dei Settanta: Le fondamenta dello stile
Nel luglio del 1974 David Yunich, il presidente della MTA, annunciò una campagna da 10 milioni di dollari per eliminare i graffiti dai treni, ed utilizzare cani addestrati per fermare i writer. In seguito a questo annuncio, il New York Times cambiò la sua posizione da pro a contro i graffiti (iniziando a chiamare i writer “animali”, “giovani vandali” o “una minaccia pubblica”).
Sembrava la fine, ma non fu così: i writer, per nulla scoraggiati dalla politica della transit authority, continuarono a dipingere. I vagoni, ripuliti dalle vecchie firme, erano come tele bianche, pronte per essere colorate. Ormai, molte nuove leve si erano aggiunte agli originari pionieri del Bronx: la nuova generazione, potendo contare sull’esempio dei più “anziani”, era molto avvantaggiata sia dal punto di vista tecnico che stilistico.
Nello stesso periodo, ai pezzi iniziarono ad aggiungersi elementi figurativi, come personaggi dei fumetti o cartoon. Lee per primo iniziò a collocare il pezzo in un contesto pittorico più ampio, dipingendo fondali scenografici.
L’elaborazione di stili nuovi aveva subito una battuta d’arresto: i writer sfruttavano gli stili fondamentali tramandati dai pionieri, e li rielaboravano in chiave personale per ottenere uno stile riconoscibile. In questa fase la tecnica di pittura acquista un ruolo centrale: i writer cercano di eliminare le sbavature, di ottenere colorazioni uniformi e tratti di contorno precisi e puliti, di dipingere nel minor tempo possibile. La maggior parte dei pezzi in questo periodo sono stati realizzati in intervallo che va dai 15 ai 60 minuti.
“Cosa rende bello un pezzo? Numero uno, devi avere i colori, intesa tra i colori. L’outline, sai com’è, deve essere molto preciso. Le linee devono unirsi bene, toccarsi. Frecce, chips, nuvole. È come se ogni pezzo che fai, dovessi cercare di differenziarlo, sperimentare qualcosa. Provare un outline beige e buttare un po’ di porpora e rosso scuro dentro al pezzo — marrone scuro, hai presente, colori del genere e poi invece dei riflessi bianchi provi a metterli neri. Si tratta, sai, di sperimentare” (DEZ)
I writer emersi dopo il 1974 sembravano arrivare ai binari con l’intenzione di diventare “graffiti artist”: Lee II incarnava perfettamente questa tendenza, ed ottenne la fama di essere uno dei migliori quando dipinse una “married couple” (due vagoni che girano sempre uniti) intitolata “doomsday”, rivisitando lo stile fatto di slogan e di rivendicazioni proprio di Lee163d!. Ciò che lo rese famoso, fu lo spostamento del nome da elemento unico e centrale del progetto del pezzo, a parte di una composizione artistica più ampia. Questo atteggiamento verso il writing è anche il risultato del fatto che Lee considerasse il writing un’arte vera e propria e ricercasse, quindi, un risultato artistico più che la “street fame” attraverso la scrittura del proprio nome.
La mentalità da “graffiti artist” portò anche, da parte dei “Fabulous Five”, alla realizzazione di un whole train nel dicembre del 1977: tra le dieci vetture che dipinsero, due recavano la scritta “Merry Christmas New York”, con Babbo Natale e le renne.
Dall’underground alle gallerie
Molto presto il writing iniziò ad essere riconosciuto come un’arte vera e propria, attraverso diversi tentativi (nel 1972 la United Graffiti Artists tenne una mostra alla Razor Gallery) di ricondurlo ai canoni dell’arte ufficiale: molti pezzi, dipinti su tela, vennero esposti nella gallerie newyorkesi.
Se un giovanissimo Skeme nel documentario Style Wars afferma “It’s for us!”, è per noi, infischiandosene delle opinioni del pubblico più ampio, Lady Pink e Futura 2000, negli stessi anni, già pensavano a produrre per i collezionisti.
Inevitabilmente, si giunse ad una frattura nel movimento, da una parte i “graffiti artist”, coloro che accettavano di esprimersi secondo i canoni tradizionali, e dall’altra i “veri” writer, convinti che l’illegalità fosse l’unica via per esprimersi liberamente.
“Quella sensazione di dipingere sui treni, non la puoi ricreare. È tutta un’altra storia. Non voglio dire che è l’adrenalina che ti entra in circolo, ma uno che disegna coi gessetti sui cartelloni neri della pubblicità non si assume gli stessi rischi di uno che entra nei depositi. Il terzo binario è lì, e sai che scotta. Andare nei depositi ti rendeva euforico. Esser lì con tutti gli altri ed incontrare qualcuno che conoscevi solo di nome, quello era già storia mentre stava succedendo. Era come una cosa organizzata da sé, senza che nessuno avesse voluto. Agivi secondo il tuo istinto. Non poteva venir fuori in maniera più pura.” (Phase 2)
Non possiamo fare a meno di notare l’ironia contro Keith Haring da parte di Phase 2, uno dei pionieri del movimento e inventore del “wild style”.
“graffiti is a kick in the face to the gallery/museum system, where the artist is pimped like a whore for the capitalist system, made into another commodity for people to buy… graffiti art is free for all to come and view, no-one can own it, it belongs to all of us” (Eskae, Walsh backcover)
Il buff system
“Will graffiti ever last?”
La lotta ai graffiti iniziò ad ottenere qualche effetto solo nel 1977, quando la MTA scoprì un cocktail di acidi in grado di rimuovere la vernice dai vagoni. Le carrozze venivano fatte passare in un gigantesco autolavaggio, che le spruzzava di acido e rimuoveva tutti i pezzi. Il costo di questo “buffing system” si aggirava sui 400.000$. Lo disse lo stesso direttore dell’azienda dei trasporti newyorkese, per i graffiti sarebbe stata la “soluzione finale” (usando un’espressione sicuramente infelice, ma che rispecchia perfettamente l’avversione che, in quel momento, i gestori della rete metropolitana nutrivano per i graffiti).
Purtroppo, non era tutto così semplice: una scuola vicina all’impianto dovette chiudere, quando i bambini iniziarono a lamentare problemi respiratori. Anche gli operai della MTA avevano gli stessi problemi, ed ottennero nel 1985 un risarcimento per “problemi di salute causati dall’esposizione ai fumi dei solventi usati per la pulizia” per 6,3 milioni di dollari.
I solventi, inoltre, corrodevano i treni e inquinavano l’ambiente. Gli acidi non rimuovevano completamente i graffiti, ma lasciavano le carrozze macchiate in modo quasi peggiore di prima del lavaggio.
I vagoni “puliti”, come al solito, erano considerati una tela bianca da molti writer: anche se alcuni abbandonarono il writing in questo periodo, tantissimi altri continuarono imperterriti.
Nel 1980, in occasione dell’anniversario della sua fondazione, la MTA aumentò la manodopera per pulire i treni, ma nuovi graffiti continuavano ad apparire sulle carrozze, che li trasportavano da un capo all’altro della città. I media sottolinearono il fallimento della politica anti-writer della MTA, mettendola in ridicolo.
Nel 1981, la MTA riuscì ad ottenere risultati notevoli, recintando lay-up e yard (i depositi ferroviari) con filo spinato, e difendendoli con cani da guardia.
Nello stesso anno, alcuni writer, Ali e Zephyr, proposero alla MTA di lasciargli dipingere un treno, e fare un sondaggio sulla reazione del pubblico. La MTA rifiutò, sostenendo che il pubblico odiava certamente i graffiti.
Nel 1984 i treni venivano tolti dalla circolazione non appena dipinti, per essere puliti, e l’anno dopo l’acquisto di spray fu vietato ai minori.
Dall’89 in poi, il writing si spostò per le strade della città, abbandonando la metropolitana a favore dei muri.
Nonostante questo, i writer ancora oggi scendono nei tunnel per dipingere la metropolitana, anche se nessuno vedrà mai i loro pezzi, quasi sempre cancellati dopo poche ore. Documentano le loro opere con fotografie e filmati, per dimostrare che fare la subway di New York è ancora possibile. In realtà, la metropolitana di New York subisce ancora tra le 3500 e le 4000 incursioni vandaliche a settimana: per gran parte, si dice, dovute a turisti europei in visita alla Mecca dei graffiti.
“There was once a time
when the Lexington was a beautiful line
when children of the ghetto expressed
with art, not with crime. But then as
evolution past, the transit buffing did its
blast. And now the trains look like rusted
trash. Now we wonder if graffiti will
EVER LAST…????????”
(da un pezzo di Lee, 1980)
Europa
“Penso che i writer della scuola parigina dei primi anni ottanta abbiano ricoperto un ruolo di guida fondamentale per tutti quei giovani writer europei che fino a quel momento vedevano nella scuola di NY l’unica fonte da cui attingere per i loro primi esperimenti sui muri.
Artisti come Bando, Mode 2, Skii, Lokiss, mostrarono a molti di noi che era possibile creare nuovi paradigmi creativi, e diventare così padroni di uno stile unico e riconoscibile.” Rendo
Quando nel 1989 il sindaco Lindsay, a New York, dichiarò i graffiti un caso chiuso (le carrozze della metropolitana erano tutte pulite), il virus aveva già attecchito in Europa e arrestare la sua diffusione sarebbe stata un’impresa ardua. Le grandi capitali sono state le prime a essere contagiate: Londra, Berlino e Parigi videro le prime tag e i primi pezzi già all’inizio degli anni Ottanta.
Futura 2000, come molti altri writer alla fine degli anni Settanta, iniziò a collaborare con band musicali, occupandosi per loro della grafica, cantando o rappando. Fu proprio grazie alla collaborazione con i Clash, con i quali avrebbe cantato nell’album “Combat Rock”, che arrivò a Londra nel 1981, iniziando a diffondere il linguaggio dei graffiti anche in Europa.
Da quell’anno in poi, le fonti da cui attingere, per i primi writer del vecchio continente, non fecero che moltiplicarsi: solo per fare un esempio, Malcolm Mc Laren, anche lui inglese, produsse nel 1983 la canzone Buffalo Gals (nel cui video appaiono Dondi e i breaker del gruppo Rock Steady Crew) che avrebbe rappresentato lo stimolo principale per moltissimi aspiranti writer.
Appena prima, nel 1982, Charlie Ahearn aveva lanciato sul mercato internazionale Wild Style, pellicola cult interamente ambientata nel mondo dei writer, interpretata da George “Lee” Quinones e girata realmente nei depositi della metropolitana di New York. Non fu l’unico video nel quale era possibile vedere dei pezzi: sullo sfondo di Beat Street (1984), il film sulla breakdance la cui trama coinvolge alcuni writer, si riconosce più d’un graffito, ancorché (si dice) artefatto da abili scenografi e non da writer genuini.
In particolare, la vita di un personaggio del film (Spit) è ricalcata sul profilo del writer Cap che viene delineato nel fondamentale documentario Style Wars, forse la principale documentazione filmata dei graffiti di quegli anni.
Style Wars, girato da Tony Silver e dal fotografo Henry Chalfant, andò in onda per la prima volta nel 1983 per essere poi proiettato nel corso di innumerevoli festival cinematografici in tutto il mondo.
Entro il 1987, anno in cui fu pubblicato il volume Spraycan Art di Henry Chalfant e James Prigoff (che documentava il writing anche fuori dagli Stati Uniti), il writing aveva raggiunto quasi tutte le capitali europee ed erano stati dipinti treni a Vienna, Dusseldorf, Monaco, Copenhagen, Parigi, Londra anche se la maggior parte degli europei lavoravano su muro. Shame 181, londinese, constata le differenze tra i due approcci: “Il loro stile è per i treni. […] Per spaccare su un treno, il pezzo ha bisogno di movimento. La maggior parte dei pezzi inglesi non ha nessun movimento, per nulla!”.
Molti dei writer che anno iniziato in quegli anni sono ancora attivi (talvolta come artisti) o, comunque, sono entrati a far parte della storia: i parigini Bando, Mode 2, Lokiss per esempio, o l’olandese Delta.
Il writing, che aveva impiegato più di dieci anni a svilupparsi in modo compiuto nella Grande Mela, arrivò in Europa con forme e metodi già stabiliti, con delle regole già decise. Gli europei, per i primi tempi, si limitarono a replicare ciò che avevano visto durante un viaggio a New York, in un video o in un libro.
Se però il fenomeno era nato in un preciso contesto storico e sociale, il cambiamento dei presupposti doveva influire sullo stile, cosa che avvenne col tempo. Se gli statunitensi rimasero bloccati alle intricate forme del wildstyle, composte da frecce e barre, incastri e svolazzi che rendevano spesso illeggibile e volutamente oscuro il risultato finale, l’Europa reagì (con sostanziali differenze da nazione a nazione) con l’evoluzione di lettere più lineari e spesso più comprensibili.
Italia
Il writing arrivò in Italia, come in molti altri paesi europei, all’inizio degli anni Ottanta, ovvero durante il periodo in cui a New York era già attiva la seconda generazione di writer, e in cui la la Grande Mela già pensava attivamente a come sbarazzarsi del fenomeno.
La fonte di ispirazione, per i pionieri del writing nostrano, fu spesso un viaggio negli States oppure la televisione: film come Beat Street o Wild Style, video musicali come Buffalo Gals di Malcolm Mc Laren costituivano un’occasione per vedere writer all’opera, per copiare le forme e immaginarne le tecniche.
Ci furono tuttavia alcuni predecessori.
A sorpresa, già nel ’78 Andrea Nelli pubblicò la sua tesi di laurea “Graffiti a New York”, per i tipi di Lerici, offrendo un’analisi precoce, esauriente e sostanzialmente corretta della scritte che vide sulla metropolitana nel 1972: “Le pensavo come strani ideogrammi che, saputi interpretare, racchiudevano il segreto di New York in quel momento”. L’esistenza del volume testimonia paradossalmente l’attenzione (o quanto meno l’apertura) del mondo accademico nei confronti del writing, ancora prima che in Italia venisse realizzato il primo pezzo.
Già nel 1979, la Galleria Medusa di Roma, gestita da Carlo Bruni ospitò una mostra di “Lee” Quinones (membro di quei Fabulous Five che realizzarono lo storico whole train “Merry Christmas to New York”, un intero convoglio della metropolitana dipinto da cima a fondo), conferendo ai graffiti un riconoscimento internazionale quale forma artistica, che ebbe eco in tutta Europa.
Carlo Bruni, presentando la mostra di Lee, scrisse “A chiunque che si occupi di pittura e che abbia sostato nel Subway di New York, vedendo sfrecciare davanti agli occhi le carrozze dipinte, non possono non essergli venuti in mente quadri come Stati d’animo, gli Addii di Boccioni”.
Durante la VI Settimana della Performance a Bologna Francesca Alinovi (insieme a Barilli, Daolio e Mango) organizzò “Telepazzia”, la prima manifestazione in Italia sui graffiti: era il 1982 e la Alinovi, che sarebbe tragicamente morta l’anno successivo in circostanze misteriose, dimostrò una precoce attenzione curatoriale verso il mondo dei graffiti.
Fu la stessa Francesca Alinovi, solo due anni più tardi (1984) a curare la fondamentale mostra “Arte di frontiera: New York graffiti” portando a Bologna writer statunitensi come Futura 2000, Lady Pink, Daze, Toxic e artisti come Keith Haring.
Nello stesso anno apparirono a Roma alcuni pezzi di writer stranieri, come Delta e Moses, in tour nella capitale.
Tra i primi a introdurre il writing a Milano, Tritalo dipingeva in metropolitana già nel 1990 anche se la leggenda vuole che il primo in assoluto a scendere nei tunnel per dipingere fosse un bolognese, che poi sarebbe diventato famoso col nome “deemo”. Era il periodo della piena diffusione delle riviste autoprodotte e fotocopiate, un mezzo di comunicazione già molto utilizzato nella scena underground: fu proprio Trap, redatta dal milanese Shad, a raccontare che nel 1992 per la prima volta si vedevano girare a Milano convogli della metropolitana dipinta. Anche se la metropolitana milanese non sarebbe stato oggetto di attenzione sistematica da parte dei writer fino ai tardi anni Novanta, la testimonianza di queste primissime incursioni rappresenta un momento interessante e significativo.
“dopo il primo pezzo (marcio) del 1982 “THERE’S SOME RAP IN MY LIVE” uscii con un bel pezzo nel 1983 “TRITALO”: ormai la scena era avviata.”, Tritalo.
Quando Tritalo parla di scena, parla in realtà di una manciata di nomi già attivi in quegli anni, come Flycat, Graffio o Atomo (più vicino alla scena punk). Era molto difficile, quasi impossibile, trovare documentazione o informazioni di prima mano sul fenomeno: non esistevano ancora riviste specializzate e le poche informazioni arrivavano da un viaggio a New York, dai racconti o dalle foto di un amico, spesso custodite gelosamente.
Dj Elektro, altro pioniere della scena milanese, si era avvicinato alla cultura hip hop attraverso la breakdance già nei primissimi anni Ottanta, per poi far parte della scena del Muretto ed essere tra i primi a entrare nei tunnel della metropolitana.
A Treviso, Mace racconta di aver dipinto il suo primo treno pochi anni dopo, nel 1989, insieme a Starch e Tonio. “I miei pezzi migliori li ho fatti sui treni e devo molto ai treni: quando dipingo un vagone il solo fatto di sapere che ciò che sto facendo si muoverà mi porta a fare qualcosa di diverso, che non c’era nell’outline [il progetto, la forma delle lettere, nda] e nemmeno nella mia testa” (Mace PWD MTD, Trap #0 p.21, 1992).
“Il primo treno bombato da me e il Crash fu nel’91 alla stazione di Ostia Lido.” Racconta il romano Napal, uno tra i pochi writer oldschool romani ancora attivi. “Andammo lÏ perchè a quel tempo c’era un treno abbandonato con dipinto “TIME” (fatto da Zebster in persona nel’ 89, questa è storia) Andammo la di sera e mentre io facevo il palo Crash saltò il recinto e fece un throw up con scritto P.S.113 (Painters Squad 113 ) poi da li andammo una sera io, Crash, Fab 137 e Breezy G sempre nel 1991(Ripeto…) sul ponte a Magliana dove lasciavano 2 treni la notte, beh praticamente distruggemmo tutti e 2 i treni! Crash fece un Throw up top2bottom con scritto LTA poi facemmo un altro con scritto P.S.113 e devastammo tutto con tag a fat… parlando con Fab una volta gli chiesi -”ma possibile che nessuno ha mai visto quei treni?” e lui mi disse “ quei treni li hanno buttati via ecco perchè…” perché li abbiamo veramente distrutti…di questa cosa non ho foto perchè la mattina dopo siamo partiti io e Crash e siamo andati a una convention a Rimini (mamma mia che robaccia…non sopporto le convention) comunque quella sera finimmo in yard con Dayaki e Eron.”.
KayOne ci parla del 1988 a Milano, e fa riferimento anche a quelli che iniziarono prima di lui:
“1988 è la mia data di nascita come writer. Al tempo eravamo veramente pochi, ci riunivamo tutti al “muretto” in Via Vittorio Emanuele a Milano. Li ho conosciuto i “mostri sacri”: FlyCat, Rendo, Kaos, Graffio, MadBob, Play, Shad… tutte persone che prima di me si sono avvicinate al writing e hanno cresciuto la scena milanese. Ci ritrovavamo per sentirci parte di un gruppo, condividere la nostra passione per l’Hip Hop in generale e scambiarci semplicemente consigli sulle proprie bozze o per ascoltare un nuovo testo. Era bellissimo si passavano intere giornate a parlare della nostra passione comune, con davanti breaker, skater e frisbee che ti volavano sulla testa.” — KayOne
Negli anni Ottanta il writing prese piede, com’era naturale, anche in altre città come Bologna: alcuni di coloro che iniziarono in quegli anni sono ancora attivi, dando vita probabilmente a una delle scene più fervide e longeve d’Italia.
“ho cominciato nel 1989 quand’ero al primo anno delle superiori. il liceo in quegli anni é stato il fulcro del movimento dei writer di Bologna. A cavallo di due anni erano iscritti: Dado, Tork, Andy, Mone, Side, Kimet, Ciufs, Kaneda, Ragio, Circe, Kora, Ezom, Benja, Wolf, Draw e Cap. Nacquero le varie crews come la 125Camelz Mob, la 138, LAP, MK1. Ora molti di loro hanno mollato il colpo e ai più i loro nomi non dicono nulla…ma i muri raccontano.” Mambo, intervista di Sara Allevi
La diffusione del writing fu, soprattutto in questa fase, accompagnata da quella della cultura hip hop che proprio alla fine degli Ottanta stava vedendo una crescita imponente supportata dalle radio e dalla televisione. I luoghi di ritrovo dei writer, di conseguenza, erano spesso quelli in cui si praticava la breakdance (il Muretto a Milano, le Banche a Padova, il Teatro Regio a Torino solo per fare alcuni esempi).
“….ricordo che eravamo 30- 40 in tutta Roma tra la fine degli 80 e gli inizi dei 90. Il nostro Internet era Crash Kid che gia girava per i party esteri e tornava con dei racconti che ascoltavamo con facce stupite ed occhi sgranati o chi viaggiava in interrail e tornava con foto spaziali di Parigi, Berlino, Amsterdam.
Il nostro YouTube erano i VHS marciti a causa dei doppiaggi eccessivi del film WildStyle.
Le nostre fanzine erano dei fogli fotocopiati in Bianco e Nero in cui però percepivi che nelle altre città c’era gente come te ma con uno stile completamente differente.
I nostri cellulari erano il passaparola che ci si dava alla Cicogna o a Galleria Colonna su eventi o serate..
Sembra preistoria a raccontarlo… ma è roba di una quindicina, ventina massimo, di anni fa…” Doppio
Nel 1993 le istituzioni iniziarono a prendere coscienza del problema e l’allora assessore all’arredo urbano di Milano Massimo De Carolis invocava muri legali da un lato e sanzioni più aspre dall’altro (questo binomio bastone-carota, fondato su una interpretazione distorta del fenomeno, sembra dominare ancora oggi le politiche urbane italiane).
Fino a quel momento, i muri erano molto più gettonati dei treni: solo in seguito si sarebbe sviluppata a pieno quella scena di train bomber che ha caratterizzato la realtà italiana per molto tempo.
Il writing si diffuse a macchia di leopardo fino alla metà degli anni novanta, quando il fenomeno ebbe un vero e proprio boom. Nel settembre 1995, quando uscì in edicola il primo numero pubblicato di AL magazine (una rivista dedicata alla cultura hip hop, che dedicava molto spazio all’aerosol art) con 12 pagine di graffiti esisteva in Italia una scena già ben sviluppata in tutte le città più grandi e numerose fanzine (riviste) autoprodotte dedicate all’argomento.
Due anni dopo, nel 1997, il fenomeno era già esploso fino a preoccupare più d’una amministrazione comunale. Era ormai diventato più semplice trovare spray e documentazione. I convogli ferroviari iniziarono ad essere dipinti sempre più spesso, tanto che si formarono delle vere e proprie “scene” intorno ad alcuni sistemi ferroviari: la metropolitana di Roma, le Ferrovie Nord di Milano e infine l’intera rete delle allora Ferrovie dello Stato, che collegavano (e collegano) l’Italia da nord a sud facendo viaggiare i graffiti per più di mille chilometri.
La metà degli anni Novanta vide il susseguirsi di radicali cambiamenti stilistici.
Prima, le firme e i pezzi erano solitamente illeggibili, le lettere intrecciate e annodate in intricati grovigli di stampo newyorkese, arricchite di barre, frecce, stelle, effetti tridimensionali e colorazioni elaborate.
“Si pensa a una lettera come normalmente appare scritta in un libro, su un giornale o su una pubblicità e la si paragona a una di quelle che viene realizzata in un wildstyle burner. Quest’ultima, esteticamente e strutturalmente, appare più selvaggia, più elaborata, più feroce, meno domestica, più intricata nella sua leggibilità e nella sua estetica, tanto da spaventare lo spettatore, da stupirlo” Rae, Minameis — writers a Milano, ready-made 2006, p.37.
Fu proprio in quel momento che qualcuno si stancò di elaborare quegli stili, difficili da sviluppare e da leggere, e iniziò a ispirarsi al nord Europa, più che a New York.
“La fusione [delle due crew] GR — MDF fu tale che portò un cambiamento radicale sulla scena milanese ,i cui effetti si possono riscontrare anche tra i protagonisti di oggi: le tag divennero leggibili e in stampatello, i whole-car sbocciarono in numero considerevole fino a sfociare in 3 whole-train in FN ed uno in FS” Spice
Alcune crew a Milano e a Roma cambiarono in qualche modo il loro approccio al writing, sviluppando uno stile più aperto e comprensibile, puntando a diventare famosi tra le persone comuni oltre che tra i writer e sentendosi, spesso, molto più vandali che artisti: la quantità iniziava a essere importante quanto la qualità, in un contesto in cui il numero di writer e la competizione non facevano che aumentare.
Contemporaneamente, e di certo non è un caso, in Italia iniziarono ad arrivare le bombolette spagnole Montana, che sembravano fatte apposta (per la pressione del propellente, molto alta, e per la qualità della vernice, molto coprente) per riempire spazi giganti, importate da alcuni writer (Dafne) prima ancora che dai colorifici. In proposito, Airone racconta che “ [le Montana] …sono state date in prova pubblicamente prima di un concerto dei Cypress Hill a Milano (c’ero, ne ho ancora una con tappo femmina…). Solo circa un paio d’anni dopo sono arrivate al colorificio di Cologno e dopo ancora a quello di Paderno. Non ricordo la data del concerto, ma penso fosse intorno al 1995.”
Più il pezzo è semplice e leggibile più mi piace.
È facile attaccare 6 frecce ad una lettera, più complicato a mio avviso fare un lavoro di sottrazione, semplificare lo stampatello in maniera stilosa, bella e nuova.
Non ho mai creduto che i “graffiti” dovessero uniformarsi o corrispondere per forza al wildstyle. Hekto
I tardi Novanta furono anni di intensa attività per i bomber nostrani, come testimoniano la nascita di numerose fanzine e i dati di vendita di AElle Magazine, l’unica rivista che, in edicola, documentava i graffiti come elemento della cultura hip hop: nel 1997 vendeva ben 10.000 copie, di certo non poche per una sottocultura di nicchia. Nello stesso anno, nacquero numerose fanzine volte a fissare su carta quella che era (è) un’attività intrinsecamente effimera.
Fino al 2000, il numero di pezzi per strada e su treno continuò ad aumentare senza sosta, mentre venivano introdotte, parallelamente, nuove marche di spray quasi ogni anno.
Era sufficiente aspettare qualche ora in una qualunque stazione ferroviaria per veder passare innumerevoli treni dipinti, a testimonianza di una scena che si faceva sempre più fervida.
Nel 2000 la decisione, da parte delle Ferrovie dello Stato di cancellare tutti i pezzi e di proteggere i treni con una pellicola plastica lavabile, ridusse al minimo il numero di graffiti “in traffico” creando la percezione di un ridimensionamento del fenomeno. In realtà, come era già successo in molti altri paesi, i writer si adattarono a dipingere solo per l’azione e per conservare un’evidenza fotografica del loro lavoro, rassegnati a non veder passare il proprio nome in stazione alla luce del giorno.