Graffiti Writing. Origini, significati, tecniche e protagonisti in Italia
01 — I nomi, le lettere, lo stile
Dieci anni fa usciva “Graffiti Writing. Origini, significati, tecniche e protagonisti in Italia”, il libro mio e di Sara Allevi sul writing in Italia. Il libro è esaurito. Ho deciso di pubblicarlo, un pezzo alla volta, su Medium. Il testo che leggerete non è l’ultima versione, quella che venne stampata da Mondadori. È una versione leggermente precedente: è probabile che sia diversa, imprecisa e con qualche errore.
Il gioco è semplice e le regole sono poche: scegliere un nome e scriverlo con uno stile originale, spesso, ovunque e comunque.
Scrivere il proprio nome è un istinto innato e la prima attività che viene insegnata a scuola: va da sé che, quando all’attività sporadica di marcare il territorio e segnalare il proprio passaggio (sempre esistita) si affianca un metodo e una ripetizione contaminata dallo stile pubblicitario, difficilmente il marchio lasciato passerà inosservato.
È anche uno dei principi su cui si basa la comunicazione commerciale: ripeti ossessivamente lo stesso marchio su ogni superficie e anche il più sbadato osservatore sarà costretto a notarlo.
Taki 183, il primo writer che riuscì a guadagnarsi le pagine del New York Times (con l’articolo “Taki 183 cerca amici di penna”) ruppe in effetti un incantesimo: dimostrò che la promozione di un nome non aveva bisogno di budget colossali e che perfino un fattorino di Washington Heights poteva guadagnarsi i 15 minuti di celebrità di warholiana memoria semplicemente armandosi di pennarelli, buona volontà e buone gambe.
L’idea, già di per sè grandiosa, fece in effetti numerosi proseliti: divenne una vera moda. Centinaia di ragazzini vennero contagiati e imitarono i pionieri, scegliendo uno pseudonimo e scrivendolo sempre più spesso, per ogni dove e con pennarelli di tutte le fogge. I nom de plume, accuratamente scelti, sovente erano seguiti da un numero, a indicare il quartiere di provenienza (come nel caso di Julio 204, il primo tagger di cui si abbia memoria) o costituendo un omaggio a un writer già esistente (Phase II).
La competitività dei proto-writer li portava a scrivere il proprio nome sempre più spesso e in luoghi inaccessibili, fino a raggiungere i treni della metropolitana e l’interno delle carrozze.
Come spesso accade, fu un’innovazione tecnica a provocare l’esplosione del fenomeno: è stata l’introduzione delle bombolette spray a rappresentare il propellente per l’esplosione del writing. La rapidità di applicazione e la disponibilità di una discreta gamma di colori consentì alle firme di aumentare di dimensione, assumere forme più stravaganti ed infine venire riempite di colore fino a formare veri e propri “pezzi”.
Sono le firme, quindi, a costituire la struttura portante del fenomeno writing. Tutti i pezzi, anche i più grandi, i più colorati, i più elaborati rimangono in sostanza delle firme: illustrazioni e personaggi figurativi, spesso presenti anche sui treni degli anni Settanta e Ottanta, sono quasi esclusivamente di contorno, arricchiscono una composizione che è sempre centrata sul lettering. È sulle lettere che si basano lo stile di un writer e la competizione con gli altri, sono grazie, ascendenti, discendenti, spaziature e ornamenti a decretare chi è il più forte.
Dalla sua nascita il writing ha subito molteplici evoluzioni, reagendo diversamente agli stimoli e alle pressioni sociali e politiche: ciò che è nato come espressione spontanea di un gruppo eterogeneo di ragazzi è stato interpretato, di volta in volta, come forma d’arte o come puro vandalismo, come creatività diffusa o come insensato attacco alla proprietà privata.
Probabilmente, ciò che rende il writing così ostico è proprio l’assenza di un intento dichiarato, l’ermeticità del messaggio (se riteniamo che un messaggio sia presente), il fatto che i segni onnipresenti sul territorio siano totalmente fuori dal controllo delle autorità (“è un segnale che abbiamo perso il controllo”, dice Koch, il presidente della metropolitana newyorkese nel 1984). Forse per la prima volta, una sottocultura si esprimeva in una forma non riconducibile a modelli preesistenti. Il writing è arte? Difficile considerarlo tale, soprattutto nei casi (numerosi, anzi predominanti) in cui l’intento artistico è totalmente assente. È uno sfregio all’omogeneità della città e alla proprietà privata? Neppure questo sembra essere corretto, viste le numerose composizioni, esteticamente ineccepibili e anzi accattivanti anche per le persone comuni.
Né il writing è classificabile come movimento di protesta, stante l’assenza di un movimento politico o un’ideologia che accomuni i writer, un interclassista melting pot di afro-americani low-class e di bianchi borghesi, che si trovano a esprimersi con modalità di certo comuni (lo spray come mezzo, il lettering come oggetto, lo spazio pubblico come tela) ma con intenti spesso diversi.
Il writing sono i writer. Alcuni dipingono per il vandalismo e per i dieci minuti di azione in un tunnel del metrò, mentre altri, più vicini a un sentimento artistico, preferiscono rifinire le proprie lettere per giorni su un muro legale, concesso dal proprietario. Talvolta (spesso) queste due anime convivono nella stessa persona.
L’obiettivo primario di alcuni è riempire la città con il proprio nome, con la propria firma, una gara per la fama, insomma. Altri preferiscono porre l’accento sulla qualità, più che sulla quantità delle proprie creazioni.
Si tratta di due volti dello stesso fenomeno: non ci sarebbero pezzi se non ci fossero le tanto odiate tag (le firme, insomma) perché anche i “graffiti” più belli e colorati non sono altro, in fondo, che grandi tag.
Le firme, spesso tracciate con un solo colore, a spray o a marker, sono diventate ormai una costante nel panorama visivo urbano: onnipresenti nelle città occidentali, si rifanno a criteri stilistici precisi e sono spesso odiate dai cittadini e dai proprietari degli edifici. La stampa raramente distingue tra firme dei writer e scritte politiche, motti di spirito, dichiarazioni di affetto (romantiche o sportive che siano) anche se qualunque osservatore, con un minimo di attenzione, noterebbe l’abissale differenza tra le due classi di segni. Da un lato, frasi in stampatello, chiaramente comprensibili e diffuse da tempo immemore, caratterizzate da un evidente senso; dall’altro, nomi tracciati con una calligrafia particolare, talvolta illeggibile ma sempre seriale: ogni tagger che si rispetti ripete il suo nome più volte, a segnalare il proprio passaggio in una gara implicita per la presenza in città che può avere un solo vincitore o king, the best with the most.
Si tratta di una competizione positiva, per la presenza sul territorio e per lo stile più originale. Si tratta di una lotta per lo stile e per il territorio che si svolge su un campo di battaglia ben preciso: lo spazio pubblico, sia esso rappresentato dal muro di un edificio o dal lato di una carrozza ferroviaria. Proprio quello spazio che è pubblico, anche se il supporto fa riferimento a un privato: è pubblico perché fruito e vissuto da tutti. È pubblico anche in quanto passibile di privatizzazione: assistiamo ogni giorno, perlopiù inermi, alla continua erosione dello spazio pubblico da parte della pubblicità, che inghiotte progressivamente ogni superficie libera, priva di segni. I writer, a questa invasione rispondono con la loro, dal basso. Ci costringono a leggere i loro nomi, esattamente come le marche di assorbenti e le case di moda, e lo fanno con stile e gratis.
Le lettere
L’intero mondo del writing ruota intorno all’evoluzione delle lettere: i writer scrivono il proprio nome (non il nome anagrafico, naturalmente, ma un soprannome scelto appositamente) e l’obiettivo primario è scriverlo bene, con uno stile originale e, possibilmente, più spesso degli altri.
Potremmo assimilare il writing alla calligrafia o a discipline grafiche come il lettering: ogni carattere viene arricchito o personalizzato con l’aggiunta di frecce, grazie, legature e decorazioni o, al contrario, la lettera viene denudata e spogliata da ogni fronzolo inutile per mostrare il suo scheletro e la suo struttura fatta di ascendenti e discendenti.
Se in un primo momento (fino alla metà degli anni Novanta) lo stile prevalente (il wildstyle) voleva che le lettere fossero armate, intrecciate, rese illeggibili e irriconoscibili, una serie di fattori hanno provocato una progressiva semplificazione degli stili, riportando in auge una certa leggibilità e lettere scritte in stampatello, ma non per questo meno originali.
Spesso, anzi, ottenere uno stile semplice ma elegante può essere un’impresa ardua tanto quanto sapersi districare tra i mille incroci di un wildstyle. “Ho sempre considerato il writing un’architettura di segni e in architettura ci sono delle regole da rispettare, o l’edificio crolla”, dice Airone.
“Quello che mi interessa di più nella progettazione di un graffito è la struttura delle lettere stesse, sia singolarmente, sia in relazione a quelle vicine. Non mi interessa riempire un pezzo di belle colorazioni o fantasie varie, quello che mi interessa è che le lettere di un pezzo escano e risaltino per la loro forma, creando nel complesso finale una certa armonia.” Zelda (TMA)
Tutte le opere che vedete in questo volume sono composte da lettere: lo scrivere, l’evolvere caratteri tipografici, l’attenersi alle regole del lettering per scrivere il proprio nome costituisce una schiavitù, un recinto ideale cui il writer deve sottostare. Eppure, una così forte limitazione lascia comunque uno spazio molto ampio alla creatività: stabilisce le regole della competizione, dell’arena in cui i writer si confrontano.
Disegnare le lettere del proprio nome è un modo di rappresentarsi, come un autoritratto, e il fatto di farlo in modo così maniacale e assiduo porta ad una estrema evoluzione e personalizzazione dell’oggetto lettera. Peeta
Non sono necessarie particolari abilità artistiche o conoscenze speciali: chiunque, con un po’ di allenamento e una dose di impegno, può scegliere una sequenza di lettere e disegnarla. Finchè c’è un nome, finchè ci sono dei caratteri tipografici, si viene giudicati secondo i parametri da writer; nel momento in cui le lettere scompaiono per lasciar posto a personaggi, loghi o composizioni astratte non si sta più parlando di graffiti writing.
[vogliamo] ..dare importanza alle lettere invece che ai figurativi e agli effetti scenici. Una lettera per essere buona non ha bisogno di chissà quanti loop o linee, può valere molto di più una lettera semplice di una illeggibile e piena di frecce, più un throw-up di un wildstyle. BSA crew
È altrettanto importante la ricerca di uno stile personale e originale, che renda il lavoro di un artista immediatamente riconoscibile: anche mentre il treno è in movimento o mentre l’osservatore sfreccia in tangenziale deve poter identificare facilmente lo stile e ricollegarlo a un singolo writer.
Penso che il concetto di stile sia una cosa molto radicata in noi, diamo molta importanza all’originalità, vedere gente che dipinge e ripropone cose che già altri fanno non lo condivido. Ci vedo poco di personale e poca ricerca. Lo stile è una cosa personale ed istintiva, poi entra in gioco la tecnica e la propria fantasia. Neo (tiker)
Non sono prodotto dei writer, insomma, deliziosi personaggetti, graziosi pinguini e allegri robottini, né lo sono i poster fotocopiati e appesi, gli stencil, gli sticker, retaggio di un intento comunicativo o addirittura artistico che è completamente alieno all’autoreferenziale mondo dei graffiti.
Né sono prodotto dei writer le dichiarazioni di sentimenti politici, sportivi o amorosi: se politici e giornalisti generalizzano e confondono, viene da pensare, è per ragioni di opportunità più che per vera ignoranza.
Il testo che avete tra le mani parla di graffiti writing, o semplicemente writing. Di nomi, spray, strade e lettere. Esulano da questa ricerca sia le comuni scritte sui muri, sia quella che viene comunemente chiamata street art (sticker, stencil, poster et similia), così come le incisioni rupestri e quelle pompeiane: pur interessanti e degne di nota, queste manifestazioni vanno giudicate con tutt’altri parametri.